Oggi vi riporto la lettera che ho scritto ad alcuni dei genitori della società di rugby dove giocano i nostri figli, che racconta un pezzo di noi. Racconta perchè agli occhi di chi sta fuori sembriamo dei matti che passano domeniche intere sui campi da rugby, perchè ci svegliamo presto e perchè ci sentiamo insieme anche se talvolta, o spesso, siamo fisicamente divisi. Racconta come siamo cambiati noi genitori, come stiamo crescendo e condividendo con loro questo pezzetto di percorso. Racconta perchè non ci sentiamo sfigati quando suona la sveglia (assonati sì però!) ma addirittura fortunati quando arriviamo sui campi dopo una giornata di lavoro.
In passato già parlai della nostra esperienza (qui) ma in effetti è un po che non rifaccio il punto ;-)
Cari genitori,
credo sia arrivato il momento di raccontarvi la mia esperienza, che poi è la stessa che ritrovo nell'entusiasmo e negli occhi di alcuni di voi.
Quando abbiamo iniziato a portare nostro figlio (il grande) eravamo dei "semplici" genitori. Lo abbiamo iscritto perchè era vicino a casa....spesso lo portavano i nonni perchè la nostra vita era, a onor del vero è tutt'ora, incasinata: mille cose, io incinta del quinto, lo studio, il lavoro....poi sono arrivate le prime cene ma soprattutto i primi tornei. Andiamo? Non andiamo? E per caso siamo andati. Lì, così, è sbocciato un amore! Quel figlio che raccoglieva margherite ha continuato ancora per un po a raccoglierle, ma questo non ha impedito alla voglia di esserci di crescere nel tempo.
La domenica sui campi da rugby è diventata un momento di incontro anche per noi: non eravamo più solo genitori che portano il figlio, ma noi stessi attori perchè ci divertivamo insieme: quel tempo è diventato anche il tempo per noi, per la nostra famiglia.
Oggi due genitori andati al torneo di Parma mi hanno raccontato la stessa storia e nelle loro parole leggo lo stesso stupore che provammo noi, lo stesso entusiasmo, la stessa scoperta.
Ebbene, perchè vi racconto tutto questo? Perchè so che davanti a proposte audaci di chilometri da macinare e sveglie da puntare ci può essere perplessità, ma vi assicuro che se proponiamo certi tornei, certe esperienze, è perchè abbiamo visto che ne vale la pena. Per questo mi trovate a scrivervi, a insistere. Per questo mi sono presa questo impegno con voi e con rps. Per questo non vi mollo un secondo.
Perchè la palla ovale, il rugby e rps è tutto questo.
Perciò il consiglio è il solito: vieni e vedi!
Un abbraccio a tutti
jek
FAMIGLIA PAROLIN
lunedì 10 aprile 2017
giovedì 9 marzo 2017
Sole, pallone, sudore e....SCACCHI!
Ieri ho avuto l'onere, ma soprattutto l'onore, di vivere una giornata a fianco di Samuele e dei suoi compagni durante il torneo di scacchi.
E' stato bellissimo!
Convinta di annoiarmi e non sapere cosa fare mi sono presentata sul luogo armata delle più infide intenzioni: leggere e navigare un po su fb. Ebbene, nulla di tutto ciò: in men che non si dica mi sono appassionata a questa disciplina, ma soprattutto a loro, ai ragazzi. Mentre giocavano scrutavo i loro visi per cogliere le emozioni: il sorrisino della vittoria, il mangiarsi il labbro per la concentrazione, lo scuotere la testa quando le cose andavano male, soffiare via i capelli dal viso, giocare coi riccioli, far tremare la gambetta....ognuno aveva il suo gesto per scaricare la tensione.
Hanno passato una giornata splendida dove si sono alternati, senza mai invadersi, tiri al pallone sotto il primo sole tiepido e pedine, il sudore della corsa con quello della concentrazione, felicità e arrabbiature: un valzer in cui nessuno pestava i piedi all'altro, perfettamente interpretato dai nostri ragazzi.
I bambini sono stati gruppo ma soprattutto amici. Dal primo momento in cui si sono incontrati hanno saputo giocare, ridere e scherzare insieme. Non c'è stato uno, e sottolineo nemmeno uno, momento di "tensione ", non una parola mal detta, non la necessità di intervenire. Sono stati capaci di essere compagni dentro e fuori dal campo di gioco, passando dalle pedine al pallone, dalla scacchiera alle porte improvvisate con le felpe.
Alcune partite sembravano infinite, eppure i due duellanti, noncuranti di ciò che accadeva intorno,sono rimasti seduti, in silenzio, concentrati. E a fianco loro i due capitani, sotegno reale alla squadra, presenti finchè l'ultimo dei giocatori della propria squadra non lasciava l'aula.
Quando le partite finivano erano pronti a chiedersi come fosse andata e a battersi il cinque in caso di vittoria, così come arrivava una pacca sulla spalla in caso di sconfitta. Nessuno mai ha puntato un dito su un compagno per una sconfitta che poteva penalizzare la squadra così come nemmeno uno si è permesso di sentirsi e mostrarsi superiore perché magari aveva vinto più partite. Invece sorridevano tutti per la vittoria di un compagno, per un barbiere o un corridoio (e qui mi fermo vista la mia enorme ignoranza in materia).
Non so cosa succederà domani in classe o in cortile.....probabilmente ricominceranno le solite zuffe, ma è stato bello assistere per un giorno a questa specie di miracolo! Sono davvero stata fortunata a conoscerli e a passare una giornata con loro, con tutti loro.
E' stato bellissimo!
Convinta di annoiarmi e non sapere cosa fare mi sono presentata sul luogo armata delle più infide intenzioni: leggere e navigare un po su fb. Ebbene, nulla di tutto ciò: in men che non si dica mi sono appassionata a questa disciplina, ma soprattutto a loro, ai ragazzi. Mentre giocavano scrutavo i loro visi per cogliere le emozioni: il sorrisino della vittoria, il mangiarsi il labbro per la concentrazione, lo scuotere la testa quando le cose andavano male, soffiare via i capelli dal viso, giocare coi riccioli, far tremare la gambetta....ognuno aveva il suo gesto per scaricare la tensione.
Hanno passato una giornata splendida dove si sono alternati, senza mai invadersi, tiri al pallone sotto il primo sole tiepido e pedine, il sudore della corsa con quello della concentrazione, felicità e arrabbiature: un valzer in cui nessuno pestava i piedi all'altro, perfettamente interpretato dai nostri ragazzi.
I bambini sono stati gruppo ma soprattutto amici. Dal primo momento in cui si sono incontrati hanno saputo giocare, ridere e scherzare insieme. Non c'è stato uno, e sottolineo nemmeno uno, momento di "tensione ", non una parola mal detta, non la necessità di intervenire. Sono stati capaci di essere compagni dentro e fuori dal campo di gioco, passando dalle pedine al pallone, dalla scacchiera alle porte improvvisate con le felpe.
Alcune partite sembravano infinite, eppure i due duellanti, noncuranti di ciò che accadeva intorno,sono rimasti seduti, in silenzio, concentrati. E a fianco loro i due capitani, sotegno reale alla squadra, presenti finchè l'ultimo dei giocatori della propria squadra non lasciava l'aula.
Quando le partite finivano erano pronti a chiedersi come fosse andata e a battersi il cinque in caso di vittoria, così come arrivava una pacca sulla spalla in caso di sconfitta. Nessuno mai ha puntato un dito su un compagno per una sconfitta che poteva penalizzare la squadra così come nemmeno uno si è permesso di sentirsi e mostrarsi superiore perché magari aveva vinto più partite. Invece sorridevano tutti per la vittoria di un compagno, per un barbiere o un corridoio (e qui mi fermo vista la mia enorme ignoranza in materia).
Non so cosa succederà domani in classe o in cortile.....probabilmente ricominceranno le solite zuffe, ma è stato bello assistere per un giorno a questa specie di miracolo! Sono davvero stata fortunata a conoscerli e a passare una giornata con loro, con tutti loro.
venerdì 3 marzo 2017
Che si mangia per cena?
Oggi un'amica mi ha nominata su facebook, anzi ha nominato una fantomatica dieta da me suggerita. Dieta? Sono anni ormai che io sono assolutamente incapace di fare una dieta. Diciamo che cerco più di rispettare un regime alimentare vario che prevede l'utilizzo di verdure fresche di stagione, legumi e cereali. In realtà oltre ad essere sano questo mi permette di avere anche un notevole risparmio sulla spesa.
Quindi, cercando di fare un po' d'ordine:
-in casa sono praticamente scomparsi gli affettati che rimangono presenti solo come parte di eventuali soffritti o dei nostri toast mattutini.
-Anche i formaggi da sbocconcellare non sono più dei nostri. Usiamo il formaggio grattuggiato e qualche volta qualcosa per insaporire i vari piatti.
-Le portate principali alternano vari tipi di proteine e cerco sempre di non mischiarle tra loro: carne (rara), legumi, formaggio, uova.
-Cucino o primo o secondo.
-E' sempre prevista la verdura che tendenzialmente è fresca e di stagione, comprata sul mercato in base ai prezzi più convenienti quel giorno. Facendo così ci troviamo anche a sperimentare nuovi sapori che sanno sorprenderci <8anche se non sempre positivamente ;-)
-La pasta rimane un'alternativa rapida che però alterniamo di frequente con vari tipi di cereali. Anche in questo caso diamo sfogo alla voglia di provare le novità.
-La frutta sempre e rigorosamente lontano dai pasti.
E i bambini come la prendono? Ci sono ricette ormai collaudate che piacciono molto. Altre che fanno storcere il naso, soprattutto i vari tipi di minestre. Altri piatti vengono invece sperimentati di volta in volta trovando magari un po' di resistenza all'inizio (d'altronde si sa che i bambini sono abitudinari!), ma che poi vengono spazzolati dopo il primo assaggio.
E le proposte sono le più svariate....il web in questo senso aiuta! Ci sono fio fiore di blog di cucina da cui ricavare le ricette più varie. Io amo le insalate fredde e le polpette perchè si possono preparare in anticipo ed essendo sempre di corsa per me è un toccasana. Anche minestroni e vellutate mi piacciono un sacco ma l'accordo coi figli è non più di una volta a settimana, anche se talvolta diventano due fingendo di non ricordarmi di averle già fatte.
Una cosa che sto sperimentando recentemente e che mi sta molto aiutando è annotare sulla lavagna la verdura acquistata e di fianco stilare il menù della settimana. Parto però sempre dalla verdura proprio perchè non mi piace comprare sempre le stesse cose ma variare in base a quello che trovo al mercato. Così facendo evito di dimenticare le verdure in fondo al frigorifero, organizzo meglio la varietà del menù evitando di trovarmi all'ultimo con la classica domanda "che cosa cucino stasera?" e anche i bambini che leggono in anticipo sanno cosa mangeranno e la smettono di cominciare a chiedermi al mattino cosa si mangerà la sera.
E se qualcuno si lamenta? Che dire, peggio per lui! Si mangia quel che c'è. Questa è la regola (con qualche piccola eccezione).
Se però chiedete ai miei figli loro amano pizza, pasta e sushi!
mercoledì 1 marzo 2017
Ma se parlasimo di diritto di vita??? Perchè la vita è più interessante della morte!
Il caso di dj Fabo ha acceso nuovamente l'attenzione dell'opinione pubblica sul tema dell'eutanasia e del suicidio assistito.
Questo caso ha colpito molto anche me e mi ha molto interrogata su quali siano le cure adeguate per i nostri malati. E' un tema estremamente complesso e io non ho le idee chiare. Ecco quindi un insieme di pensieri che sisono accavallati in questi giorni e a cui sto cercando di dare ordine.
Quello che ho chiaro è che la vita è vita e in quanto tale va vissuta. Non esiste, a mio avviso, un concetto di qualità di vita. Che poi, cosa si intende per qualità di vita? La vita è tale, la vita è data; è qualcosa che c'è!Qualunque essa sia c'è!. Per questo motivo io la vita la voglio difendere.
La cosa che mi scandalizza di questo dibattito, ogni volta che esce, è come verta esclusiavmente sulla questione della morte. Quindi non la vita come diritto ma la morte come diritto e pretesa. Io trovo molto più interessante su un caso del genere discutere della vita: come lo stato, come ciascuno di noi, possa mettere tutti in condizioni di vivere, come si possano aiutare queste famiglie a vivere. Ed è su questo che siamo estremamente carenti, sulle strutture, che siano esse ricoveri o organizzazioni domiciliari e territoriali, che sostengano queste famiglie, questi malati, nel vivere quotidianamente quella che è una situazione non facile, anzi, estremamente difficile in alcune occasioni. Il problema è che quando si è soli e non supportati finisce che questa fatica diventa il metro di misura per quello che può essere considerata qualità o meno, mentre non è accettabile che la fatica sia la misura per la vita di qualcuno.
Sicuramente mi piacerebbe vedere un dibattito in questo senso: di fronte ad uno che sceglie di morire la domanda è: perchè non ha scelto di vivere? Quali sono le condizioni che lo hanno portato a scegliere di morire?
E' difficile pensare cosa vorrei per me. So che vorrei essere amata anche in quelle condizioni e vorrei potere amare una persona cara che versa in quelle condizioni. Non so se ne sarei capace, per carità, però il desiderio è quello: guardare la persona per quello che è, per il fatto che c'è, e non per quello che è in grado di fare o meno.
Se penso al fatto che la vita è data e non è in mano nostra, questo è vero in entrambi i sensi: noi non ne disponiamo nè nel senso della morte, nè nel senso di accanimento verso la vita. Visto anche il mio lavoro mi chiedo: quando le nostre cure devono essere sospese? Quando le nostre cure diventano accanimento? Come si definisce il nostro limite? Ad oggi la medicina è in grado di sostenere le funzioni vitali per molto tempo e in numerose occasioni, però ci deve essere un limite anche in questo, altrimenti finiamo per disporre delle vita anche nella ricerca della vita a tutti i costi. Il tema si fa ancora più delicato se dal paziente acuto passiamo al cronico, dove si è raggiunto un equilibrio sebbene, magari, con l'ausilio di macchine e sebbene questo equilibrio preveda un corpo irrimediabilmente malato, che non lascia intravedere una via di guarigione
Ecco, a me si aprono questi interrogativi di fronte a questa vicenda: da una parte come mai siamo più attratti dall'idea di avere una legge, di aprire un dibattito sulla morte e non su quelle che sono le possibilità di vita; e dall'altra quali sono i limiti che come medici, come medicina, come società, non possiamo superare.
Probabilmente c'è davvero bisogno di una regolamentazione in questo senso, perchè la medicina ci porta sempre più verso situazioni di questo genere e le decisioni non possono essere lasciate in mano al primo parente o giudice che decida. Una legge molto restrittiva, magari, ma qualcosa che sbrogli quello che sembr aun po' un far west dove si salva chi ottiene più plauso dal pubblico, indipendentemente da quello che dice.
Tutte queste riflessioni sono ben lontane però dal tema del "testamento biologico", che è in discussione in questi giorni alla camera (mi pare), che è un discorso ancora diverso, molto più complesso, perchè prevede che tu prima faccia una scelta per quello che potrebbe essere il dopo. Ecco, su questo ho le idee chiare: non sono d'accordo. Non ci credo che sia supponibile prima quale sia il limite che vogliamo dare alla nostra vita dopo. Non vorrei mai trovarmi nella posizione di un paziente che magari prima ha scritto una cosa e che poi, in quel momento, anche se cambia idea, non è in grado di esprimerla e quindi va incontro alla morte. Al testamento biologico dico davvero e inequivocabilemnte NO. Sono concinta che sia un errore!
Trovare una regolamentazione, come detto più sopra, è complesso ed estremamente articolato. E' legato al caso per caso ed è difficile da definire prima, se non impossibile. Certo non si può sviscerare con una legge tutte le singole ipotesi e problematiche cui ti puoi trovare davanti. D'altronde i medici lo sanno bene che spesso si fa fronte alla situazione caso per caso, la stessa cura adeguata per una persona non lo è per un'altra. La medicina è sempre più ad personam e così deve essere. Capisco anche la complessità di definire un limite. Quello di cui sono certa è che il limite, lo staccare, non può e non deve essere legata all'idea di qualità di vita. Perchè la qualità di vita chi la definisce? In Base a cosa? Quindi un suicida perchè ha perso tutti i soldi, non devo soccorrerlo perchè il suo volere è suicidarsi e perchè per lui la vita in povertà economica non ha qualità? o di fronte ad un caso del genere la società decide che non è un motivo valido? E' quindi sempre la società che deve decidere cosa sia qualità o meno? L'impressione è che quando uno non è più utile e il suo stare al mondo è un esistere e non un fare allora si parla di mancanza di qualità. Che ne facciamo dei nostri anziani, allora?
Quello su cui mi viene decisamente da orientarmi non è il diritto di morire, nè tantomeno sul concetto di qualità di vita, bensì su quale sia il limite oltre il quale non si può e non ci si deve spingere.
Questo caso ha colpito molto anche me e mi ha molto interrogata su quali siano le cure adeguate per i nostri malati. E' un tema estremamente complesso e io non ho le idee chiare. Ecco quindi un insieme di pensieri che sisono accavallati in questi giorni e a cui sto cercando di dare ordine.
Quello che ho chiaro è che la vita è vita e in quanto tale va vissuta. Non esiste, a mio avviso, un concetto di qualità di vita. Che poi, cosa si intende per qualità di vita? La vita è tale, la vita è data; è qualcosa che c'è!Qualunque essa sia c'è!. Per questo motivo io la vita la voglio difendere.
La cosa che mi scandalizza di questo dibattito, ogni volta che esce, è come verta esclusiavmente sulla questione della morte. Quindi non la vita come diritto ma la morte come diritto e pretesa. Io trovo molto più interessante su un caso del genere discutere della vita: come lo stato, come ciascuno di noi, possa mettere tutti in condizioni di vivere, come si possano aiutare queste famiglie a vivere. Ed è su questo che siamo estremamente carenti, sulle strutture, che siano esse ricoveri o organizzazioni domiciliari e territoriali, che sostengano queste famiglie, questi malati, nel vivere quotidianamente quella che è una situazione non facile, anzi, estremamente difficile in alcune occasioni. Il problema è che quando si è soli e non supportati finisce che questa fatica diventa il metro di misura per quello che può essere considerata qualità o meno, mentre non è accettabile che la fatica sia la misura per la vita di qualcuno.
Sicuramente mi piacerebbe vedere un dibattito in questo senso: di fronte ad uno che sceglie di morire la domanda è: perchè non ha scelto di vivere? Quali sono le condizioni che lo hanno portato a scegliere di morire?
E' difficile pensare cosa vorrei per me. So che vorrei essere amata anche in quelle condizioni e vorrei potere amare una persona cara che versa in quelle condizioni. Non so se ne sarei capace, per carità, però il desiderio è quello: guardare la persona per quello che è, per il fatto che c'è, e non per quello che è in grado di fare o meno.
Se penso al fatto che la vita è data e non è in mano nostra, questo è vero in entrambi i sensi: noi non ne disponiamo nè nel senso della morte, nè nel senso di accanimento verso la vita. Visto anche il mio lavoro mi chiedo: quando le nostre cure devono essere sospese? Quando le nostre cure diventano accanimento? Come si definisce il nostro limite? Ad oggi la medicina è in grado di sostenere le funzioni vitali per molto tempo e in numerose occasioni, però ci deve essere un limite anche in questo, altrimenti finiamo per disporre delle vita anche nella ricerca della vita a tutti i costi. Il tema si fa ancora più delicato se dal paziente acuto passiamo al cronico, dove si è raggiunto un equilibrio sebbene, magari, con l'ausilio di macchine e sebbene questo equilibrio preveda un corpo irrimediabilmente malato, che non lascia intravedere una via di guarigione
Ecco, a me si aprono questi interrogativi di fronte a questa vicenda: da una parte come mai siamo più attratti dall'idea di avere una legge, di aprire un dibattito sulla morte e non su quelle che sono le possibilità di vita; e dall'altra quali sono i limiti che come medici, come medicina, come società, non possiamo superare.
Probabilmente c'è davvero bisogno di una regolamentazione in questo senso, perchè la medicina ci porta sempre più verso situazioni di questo genere e le decisioni non possono essere lasciate in mano al primo parente o giudice che decida. Una legge molto restrittiva, magari, ma qualcosa che sbrogli quello che sembr aun po' un far west dove si salva chi ottiene più plauso dal pubblico, indipendentemente da quello che dice.
Tutte queste riflessioni sono ben lontane però dal tema del "testamento biologico", che è in discussione in questi giorni alla camera (mi pare), che è un discorso ancora diverso, molto più complesso, perchè prevede che tu prima faccia una scelta per quello che potrebbe essere il dopo. Ecco, su questo ho le idee chiare: non sono d'accordo. Non ci credo che sia supponibile prima quale sia il limite che vogliamo dare alla nostra vita dopo. Non vorrei mai trovarmi nella posizione di un paziente che magari prima ha scritto una cosa e che poi, in quel momento, anche se cambia idea, non è in grado di esprimerla e quindi va incontro alla morte. Al testamento biologico dico davvero e inequivocabilemnte NO. Sono concinta che sia un errore!
Trovare una regolamentazione, come detto più sopra, è complesso ed estremamente articolato. E' legato al caso per caso ed è difficile da definire prima, se non impossibile. Certo non si può sviscerare con una legge tutte le singole ipotesi e problematiche cui ti puoi trovare davanti. D'altronde i medici lo sanno bene che spesso si fa fronte alla situazione caso per caso, la stessa cura adeguata per una persona non lo è per un'altra. La medicina è sempre più ad personam e così deve essere. Capisco anche la complessità di definire un limite. Quello di cui sono certa è che il limite, lo staccare, non può e non deve essere legata all'idea di qualità di vita. Perchè la qualità di vita chi la definisce? In Base a cosa? Quindi un suicida perchè ha perso tutti i soldi, non devo soccorrerlo perchè il suo volere è suicidarsi e perchè per lui la vita in povertà economica non ha qualità? o di fronte ad un caso del genere la società decide che non è un motivo valido? E' quindi sempre la società che deve decidere cosa sia qualità o meno? L'impressione è che quando uno non è più utile e il suo stare al mondo è un esistere e non un fare allora si parla di mancanza di qualità. Che ne facciamo dei nostri anziani, allora?
Quello su cui mi viene decisamente da orientarmi non è il diritto di morire, nè tantomeno sul concetto di qualità di vita, bensì su quale sia il limite oltre il quale non si può e non ci si deve spingere.
mercoledì 1 febbraio 2017
quando la scuola diventa compagnia
Quando ero giovane vedevo una cosa bella e la desideravo per me. Ora quando vedo una cosa bella la prima cosa che desidero è che sia per i miei figli. E sono fortunata perché, in un tempo storico di cui tanti parlano male, io di cose belle ne vedo molte e più ne vedo più le desidero per loro e spero che diventino parte del loro futuro.
Una di queste cose è la scuola. Tasto dolente per molti e anche per noi lo fu, al punto da pensare all'home schooling.
Non voglio parlare però delle fatiche di prima se non per sottolineare la bellezza del poi, perché dopo un anno e mezzo posso dire che ora siamo felici : i nostri figli e noi.
Da un anno e mezzo i bambini delle elementari frequentano la scuola FAES Argonne, una scuola paritaria....E qui molti magari storceranno il naso. Chi non ha aggrottato la fronte prima lo farà probabilmente sapendo che è una scuola omogenea: per noi compagni e maestri solo maschi!
Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto è lo sguardo che vedo sui miei bambini: uno sguardo che vuole crescere degli uomini, che ha a cuore il loro destino. Uno sguardo che punta in alto e non si accontenta di dare nozioni. Uno sguardo dove il positivo è da gratificare e il "negativo" è per spronare, non obiezione ma strumento per crescere.
Mi guardo intorno e vedo famiglie che si conoscono dai tempi delle scuole, ex alunni legati per la vita, vedo maestri che ai tempi occuparono gli stessi banchi dei nostri figli (ok, va bene, non proprio gli stessi!) e che ora invece siedono in cattedra. Vi dirò che proprio quest'ultimo punto fu quello che mi fece dire "sì" perché se un uomo decide di diventare insegnante nella scuola che lo ha cresciuto vuole dire che l'esperienza fatta deve essere stata fantastica.
Andare alle riunioni non è più una fatica ma un momento vero di incontro; come andare ai colloqui individuali è prima di tutto una crescita per noi genitori così da accompagnare, insieme ai maestri, i bambini nella loro crescita.
Ho nel cuore il desiderio di vedere i miei figli diventati grandi e un po' mi auguro che potranno portarsi dietro il ricordo di questa scuola e che magari qualche legame diventi compagnia per la vita (a onor del vero lo spero anche per l'esperienza del rugby che sempre più prepotentemente si è insinuata e si insinua in casa nostra! )
Insomma, dall'home schooling siamo arrivati a una famiglia, un insieme di famiglie!
Una di queste cose è la scuola. Tasto dolente per molti e anche per noi lo fu, al punto da pensare all'home schooling.
Non voglio parlare però delle fatiche di prima se non per sottolineare la bellezza del poi, perché dopo un anno e mezzo posso dire che ora siamo felici : i nostri figli e noi.
Da un anno e mezzo i bambini delle elementari frequentano la scuola FAES Argonne, una scuola paritaria....E qui molti magari storceranno il naso. Chi non ha aggrottato la fronte prima lo farà probabilmente sapendo che è una scuola omogenea: per noi compagni e maestri solo maschi!
Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto è lo sguardo che vedo sui miei bambini: uno sguardo che vuole crescere degli uomini, che ha a cuore il loro destino. Uno sguardo che punta in alto e non si accontenta di dare nozioni. Uno sguardo dove il positivo è da gratificare e il "negativo" è per spronare, non obiezione ma strumento per crescere.
Mi guardo intorno e vedo famiglie che si conoscono dai tempi delle scuole, ex alunni legati per la vita, vedo maestri che ai tempi occuparono gli stessi banchi dei nostri figli (ok, va bene, non proprio gli stessi!) e che ora invece siedono in cattedra. Vi dirò che proprio quest'ultimo punto fu quello che mi fece dire "sì" perché se un uomo decide di diventare insegnante nella scuola che lo ha cresciuto vuole dire che l'esperienza fatta deve essere stata fantastica.
Andare alle riunioni non è più una fatica ma un momento vero di incontro; come andare ai colloqui individuali è prima di tutto una crescita per noi genitori così da accompagnare, insieme ai maestri, i bambini nella loro crescita.
Ho nel cuore il desiderio di vedere i miei figli diventati grandi e un po' mi auguro che potranno portarsi dietro il ricordo di questa scuola e che magari qualche legame diventi compagnia per la vita (a onor del vero lo spero anche per l'esperienza del rugby che sempre più prepotentemente si è insinuata e si insinua in casa nostra! )
Insomma, dall'home schooling siamo arrivati a una famiglia, un insieme di famiglie!
venerdì 2 settembre 2016
Ohhhhh! Primo poi dovevo tornare a scrivere. E quale argomento migliore del fertility day per farlo?! E quale luogo migliore se non questo?!
Premetto che le immagini e gli slogan di questa campagna li trovo tremendi (quale pubblicitario folle o imbecille può averli ideati? !). Ciò detto, se non mi piacciono gli slogan di questa campagna, ancor meno mi piacciono i contro slogan ad effetto fatti solo per fare polemica o attirare like su fb.
Io credo che questa campagna sia scomoda perché ci pone davanti a delle verità e ai nostri limiti.
Sono assolutamente convinta che per arrivare a fare una campagna del genere la situazione dev'essere veramente grave. D'altronde è vero, è un'evidenza che i figli vengono fatti sempre più tardi e ovviamente sempre con più difficoltà i concepimenti sono spontanei. Il pensiero è lungo, articolato, complicato, e tocca molteplici tematiche.
C'è un tema che però mi sembra sia stato silente da tutte le parti di questa campagna, che è il rapporto con l'altro. L'altro inteso il marito o il compagno, l'altro inteso come qualcuno che non sono io.
Quello che a mio avviso sta evidenziando il dibattito scaturitene è l'egoismo dell'essere umano della nostra società : io mi basto da solo (o da sola in questo caso). Ma non si può parlare di figli (i figli di cui si dibatte, quelli pensati, desiderati, voluti), senza parlare di famiglia.In tutta questa storia del fertility day la vera assente è la famiglia. Il rapporto di coppia, quell'unione che porta a desiderare il per sempre, quell'unione da cui scaturisce il desiderio di dare la vita per un altro, nessuno lo ha nominato. E quindi fare un figlio sembra una cosa impersonale da decidere e programmare a tavolino. Come mi ricorda un'amica fare un figlio è qualcosa di molto più complesso. È solo dentro una relazione così profonda che si può arrivare a desiderare quello che sembra una follia : notti insonni, cambiare pannolini, ingrassare, partorire. Se io non avessi incontrato mio marito, se non avessimo deciso di sposarci e posare la prima pietra di questa famiglia, mai e poi mai avrei desiderato un figlio a 21 anni. Perché il solo richiamo biologico non sarebbe bastato a farmi mettere da parte il lavoro, i viaggi, i sogni che avevo nel cassetto. Magari più avanti.....magari dopo......
E poi ci sono i rapporti con gli altri, con la collettività, con lo stato con la famiglia d'origine. Da più parti ho letto del problema dell'indipendenza assoluta e completa. Metto due riflessioni sul piatto che poi in realtà appartengono tutte al problema dell'indipendenza: 1) laddove possibile, da che mondo e mondo, i nonni hanno aiutato a crescere i nipoti o addirittura a comprare casa, mentre oggi se ti fai aiutare sembri uno sfigato che non se la sa cavare da solo 2) non vogliamo l'aiuto dei nonni in nome dell'indipendenza ma pretendiamo l'aiuto dello stato. ...a me pare che nemmeno così siamo indipendenti. È altresì vero che non tutti hanno i nonni in grado di occuparsi dei nipoti o di aiutare nell'acquisto di una casa. In generale mi viene da pensare, comunque, che forse questa storia dell'indipendenza completa è un po una fregatura. Forse siamo diventati troppo altezzosi e pretendiamo di bastarci da noi. Forse l'uomo è fatto di relazioni e dentro questo si inserisce il concetto di aiuto e sostegno reciproco. Detto questo, ribadisco che questa campagna non mi piace nei modi.
E aggiungo: si, fare un figlio è un sacrificio e tutto nella vita non si può avere. Però, come io mi sento dire che un'esperienza all'estero a me manca o che il mio tempo di studio è inferiore ad altri, così voi, lasciate dire che fare un figlio, anzi, più di un figlio in età giovane è meglio che aspettare i 35 anni. Nessuno è migliore di nessuno, ma le verità si possono dire e ascoltare senza offendersi (anche perché non capisco perché una donna dovrebbe offendersi).
Ah, io di immagine metto questa, altro che clessidre e ombre
Premetto che le immagini e gli slogan di questa campagna li trovo tremendi (quale pubblicitario folle o imbecille può averli ideati? !). Ciò detto, se non mi piacciono gli slogan di questa campagna, ancor meno mi piacciono i contro slogan ad effetto fatti solo per fare polemica o attirare like su fb.
Io credo che questa campagna sia scomoda perché ci pone davanti a delle verità e ai nostri limiti.
Sono assolutamente convinta che per arrivare a fare una campagna del genere la situazione dev'essere veramente grave. D'altronde è vero, è un'evidenza che i figli vengono fatti sempre più tardi e ovviamente sempre con più difficoltà i concepimenti sono spontanei. Il pensiero è lungo, articolato, complicato, e tocca molteplici tematiche.
C'è un tema che però mi sembra sia stato silente da tutte le parti di questa campagna, che è il rapporto con l'altro. L'altro inteso il marito o il compagno, l'altro inteso come qualcuno che non sono io.
Quello che a mio avviso sta evidenziando il dibattito scaturitene è l'egoismo dell'essere umano della nostra società : io mi basto da solo (o da sola in questo caso). Ma non si può parlare di figli (i figli di cui si dibatte, quelli pensati, desiderati, voluti), senza parlare di famiglia.In tutta questa storia del fertility day la vera assente è la famiglia. Il rapporto di coppia, quell'unione che porta a desiderare il per sempre, quell'unione da cui scaturisce il desiderio di dare la vita per un altro, nessuno lo ha nominato. E quindi fare un figlio sembra una cosa impersonale da decidere e programmare a tavolino. Come mi ricorda un'amica fare un figlio è qualcosa di molto più complesso. È solo dentro una relazione così profonda che si può arrivare a desiderare quello che sembra una follia : notti insonni, cambiare pannolini, ingrassare, partorire. Se io non avessi incontrato mio marito, se non avessimo deciso di sposarci e posare la prima pietra di questa famiglia, mai e poi mai avrei desiderato un figlio a 21 anni. Perché il solo richiamo biologico non sarebbe bastato a farmi mettere da parte il lavoro, i viaggi, i sogni che avevo nel cassetto. Magari più avanti.....magari dopo......
E poi ci sono i rapporti con gli altri, con la collettività, con lo stato con la famiglia d'origine. Da più parti ho letto del problema dell'indipendenza assoluta e completa. Metto due riflessioni sul piatto che poi in realtà appartengono tutte al problema dell'indipendenza: 1) laddove possibile, da che mondo e mondo, i nonni hanno aiutato a crescere i nipoti o addirittura a comprare casa, mentre oggi se ti fai aiutare sembri uno sfigato che non se la sa cavare da solo 2) non vogliamo l'aiuto dei nonni in nome dell'indipendenza ma pretendiamo l'aiuto dello stato. ...a me pare che nemmeno così siamo indipendenti. È altresì vero che non tutti hanno i nonni in grado di occuparsi dei nipoti o di aiutare nell'acquisto di una casa. In generale mi viene da pensare, comunque, che forse questa storia dell'indipendenza completa è un po una fregatura. Forse siamo diventati troppo altezzosi e pretendiamo di bastarci da noi. Forse l'uomo è fatto di relazioni e dentro questo si inserisce il concetto di aiuto e sostegno reciproco. Detto questo, ribadisco che questa campagna non mi piace nei modi.
E aggiungo: si, fare un figlio è un sacrificio e tutto nella vita non si può avere. Però, come io mi sento dire che un'esperienza all'estero a me manca o che il mio tempo di studio è inferiore ad altri, così voi, lasciate dire che fare un figlio, anzi, più di un figlio in età giovane è meglio che aspettare i 35 anni. Nessuno è migliore di nessuno, ma le verità si possono dire e ascoltare senza offendersi (anche perché non capisco perché una donna dovrebbe offendersi).
Ah, io di immagine metto questa, altro che clessidre e ombre
giovedì 22 ottobre 2015
L'ultima notte: 14/10/2015
Ricordo come fosse ieri il giorno in cui siamo entrati. Era il giorno del nostro matrimonio: lui il principe, io la principessa. Mi ha portata dentro in braccio, come nelle migliori favole. Siamo entrati e ci siamo seduti su due poltroncine pieghevoli di quelle da regista: erano le uniche cose presenti nella nostra sala. Ci siamo accesi una sigaretta.
Anche ora sono seduta in sala, sul divano. Intorno a me è pieno di cose, di scatole: tante ne abbiamo già portate via, tante altre le seguiranno. E poi ci sono i mobili: ognuno aggiunto piano piano, nel tempo.
In camera non c'è più il nostro letto al centro della stanza, ma 5 materassi. Il nostro letto ha trovato spazio di sopra, dove prima c'era lo studio.
Lo studio: il computer, i libri, i colori per dipingere...le serate passate con Antonio per la sua tesi!
E poi la cucina: disordinata, sempre in fermento, colorata. Anche stasera ha appena finito di sfornare 36 muffin per il compleanno di domani.
11 anni! Mi ricordo le prime notti: la difficoltà ad addormentarmi in quel letto che ancora non sentivo mio, in quella casa che ci sembrava enorme.
L'ho odiata questa casa per mille motivi. Eppure lei ci ha accolti tutti, ha trovato spazio per ognuno di noi. Eravamo due quando siamo entrati e ora siamo quasi 8! Mai avremmo immaginato quella sera, entrando, che un giorno saremmo stati in quasi-8 qui dentro.
Ogni angolo l'abbiamo costruito nel tempo. Ogni mobile parla del tempo trascorso qui dentro. Modificata, plasmata per e da noi piano piano.
Che strano sapere che questa è l'ultima notte! Sarà un addio lungo, ma questa è l'ultima notte che noi quasi-8 dormiamo qui dentro.
Si chiude un capitolo.
Anche ora sono seduta in sala, sul divano. Intorno a me è pieno di cose, di scatole: tante ne abbiamo già portate via, tante altre le seguiranno. E poi ci sono i mobili: ognuno aggiunto piano piano, nel tempo.
In camera non c'è più il nostro letto al centro della stanza, ma 5 materassi. Il nostro letto ha trovato spazio di sopra, dove prima c'era lo studio.
Lo studio: il computer, i libri, i colori per dipingere...le serate passate con Antonio per la sua tesi!
E poi la cucina: disordinata, sempre in fermento, colorata. Anche stasera ha appena finito di sfornare 36 muffin per il compleanno di domani.
11 anni! Mi ricordo le prime notti: la difficoltà ad addormentarmi in quel letto che ancora non sentivo mio, in quella casa che ci sembrava enorme.
L'ho odiata questa casa per mille motivi. Eppure lei ci ha accolti tutti, ha trovato spazio per ognuno di noi. Eravamo due quando siamo entrati e ora siamo quasi 8! Mai avremmo immaginato quella sera, entrando, che un giorno saremmo stati in quasi-8 qui dentro.
Ogni angolo l'abbiamo costruito nel tempo. Ogni mobile parla del tempo trascorso qui dentro. Modificata, plasmata per e da noi piano piano.
Che strano sapere che questa è l'ultima notte! Sarà un addio lungo, ma questa è l'ultima notte che noi quasi-8 dormiamo qui dentro.
Si chiude un capitolo.
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